[pubblicato in versione più breve da Osservatorio Balcani e Caucaso, 24/02/2015, http://www.balcanicaucaso.org/aree/Russia/Russia-lo-stato-profondo-159093]
Il Cremlino è sempre stato una fonte
inesauribile di speculazioni. Di chi si circonda il presidente, perché, cosa si
può dedurre dal protocollo e dai rituali sociali che traspaiono in pubblico,
chi scende e chi sale e che cosa ci si deve aspettare da questi cambiamenti?
Il dibattito, in breve
Dall’inizio del conflitto in Ucraina la
questione di chi ha in mano il processo decisionale è stata dibattuta
intensamente. La diagnosi più condivisa, da osservatori dentro e fuori la Russia è che il numero di
chi ha diretto accesso al presidente si sia ristretto e abbia assunto una
maggiore compattezza negli orientamenti espressi.
La metodologia di analisi varia da
contributo a contributo, e si va da ricostruzioni giornalistiche espressione di
posizioni di esperti e giornalisti a studi statistici frutto di ricerche più
approfondite. Ma la diagnosi pare condivisa: fin dal secondo mandato di Putin
la corte del Cremlino si stava assestando su una maggiore omogeneità interna e
– a cascata – sull’intero quadro istituzionale del paese. La corte mista di
tanti boiari con le proprie agende e la varietà della propria origine diventa
sempre di più una coorte.
Il mito dell’Uomo Forte
Il mito dell’Uomo Forte serve prima di
tutto all’uomo forte. Il messaggio è che solo l’uomo forte può dirigere lo
Stato e la sua saggezza e la sua autorevolezza garantiscono il buon governo.
Senza di lui solo il caos. Questa idea affascina molti elettori, un po’ ovunque
peraltro, che mirano il leader sgridare come scolaretti imprenditori (https://www.youtube.com/watch?v=UMlsbB33QSc),
ministri (https://www.youtube.com/watch?v=Mu1Be9W3h0I
) o chiunque sgarri per volontà o
incapacità. Per dirla con W. E. Halal è un tipo di leadership autocratica,
tipica di società primitive e idonea a fasi di guerra, e che si oppone a forme
di leadership quali quelle partecipativa o di autonomia, in cui il ruolo del
leader è di incoraggiare uno staff verso una missione, non con il controllo ma
con la condivisione di responsabilità e di potere decisionale, e che sono più
tipiche di società evoluta e sofisticata (http://home.gwu.edu/~halal/Articles/Leaders_Who_Listen.pdf
). Certo la prima attrae di più circoli conservatori, cultori del controllo
come principale strumento di stabilità sociale. Il che porta direttamente al
profilo professionale che caratterizza l’attuale leadership russa.
I “suoi uomini”
Il mito dell’Uomo Forte è anche appunto
un mito, soprattutto quando si parla di sistemi complessi come gli stati, non
di gruppi umani di poche decine di persone. Nello Stato chi riveste la massima
carica, de jure o de facto, ha sempre un gruppo di persone
intorno con i quali crea rapporti di interdipendenza, non esclusivamente di
comando, i “suoi uomini”. Nel caso della Russia l’espressione è particolarmente
azzeccata, perché si tratta di un gruppo ristretto di uomini con un passato o
un presente in divisa. Unica eccezione, per chi estende il nocciolo duro a
tutti i membri del Consiglio di Sicurezza, Valentina Matviyienko, di origini
ucraine, che presiede il Consiglio Federale, e quindi ha un seggio permanente
all’interno del Consiglio di Sicurezza.
Ma pur nella rilevanza quest’organismo
forse non è proiezione esatta della coorte putiniana, per qualche nome di
troppo, per esempio il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov, e qualche mancanza
troppo illustre, come Igor Sechin, a capo di Rosneft.
L’insieme di intersezione di vari metodi
per identificare il gruppo di governo si restringe a pochi nomi, molti dei
quali risiedono nei così detti ministeri forti: gli Interni, la Sicurezza Federale
(FSB), la Procura Generale
(http://www.britannica.com/EBchecked/topic/477847/procuracy
), e – forse appena più periferico – la Difesa, i famosi Siloviki. Quindi l’elenco a
livello apicale si riduce a pochi nomi:
- Nikolaj Patrushev, ex capo della FSB,
attualmente presiede il Consiglio di Sicurezza nazionale (CSN). Nel KGB di
Pietroburgo dove si è formato Putin (anni 1975-1984). Ha rilasciato interviste
da cui traspare la sua linea dura in tema di autonomia della società civile, e
in cui si è espresso a favore dell’utilizzo del nucleare anche in conflitti
regionali. A lui è legato un altro silovik, Rashid Nurgaliev, KGB della
Carelia, ex Ministro degli Interni, ora suo vice. E’ ancora del suo entourage
Boris Gryzlov, alla Duma per Russia Unita e nel CSN. Il figlio di Patrushev ha
invece ottenuto il posto di Advisor di Sechin.
- Vladimir Ustinov, a cui si arriva
anche via Sechin, visto che sono consuoceri. Ex procuratore generale, Ministro
della Giustizia, e poi Plenipotenziaro per il Distretto Federale Meridionale.
Conosciuto da Putin nel suo primo periodo moscovita, quello che ha preceduto i
suoi incarichi federali (1996-1999).
- Sergey Ivanov, sempre del KGB di
Pietroburgo, a capo dell’amministrazione presidenziale;
Ci sono i due Ministri, degli Interni
Vladimir Kolokolcev, e della Difesa Sergey Shoigu, che non rientrano nel gruppo
delle conoscenze storiche di Putin, ma che per incarico e per divisa, nel
gruppo dei siloviki. Come è una aggiunta relativamente recente, Aleksander
Bortnikov, il nuovo capo delle FSB, pure KGB/FSB di Pietroburgo dal 1975 al
2004, ma più vicino a Medvedev, originariamente.
Oltre ai siloviki, gli uomini in
[ex]divisa della politica, ci sono i “silovarchi” (http://www.sscnet.ucla.edu/polisci/faculty/treisman/Papers/siloct06.pdf),
i siloviki-oligarchi. Primo fra tutti Igor Sechin, del così detto KGB Angola,
dove aveva prestato servizio. Ma l’incontro con Putin e’ negli anni di
Pietroburgo ’91-’96. Sempre nel settore dell’energia, ma a Transneft, c’è
Nikolaj Tokarev, collega KGB negli anni della Germania est, come Sergey
Chermezov, CEO di RosTec.
Ci sono poi altri nel mondo del privato
o delle aziende statali o partecipate molto vicini al presidente: Jakushin, il
direttore delle Ferrovie e via dicendo, ma l’elenco, che dovrebbe allargarsi
agli influenti consiglieri presidenziali, si farebbe forse noioso.
Il patrimonialismo e i suoi rischi, in
salsa russa
Un elenco ridotto all’osso esclude
necessariamente i vari Batrykin, Cherkesov (compagni di scuola di Putin, poi
anche entrati nei ministeri forti), l’eterno Viktor Ivanov, del KGB di San
Pietroburgo, i Belyaninov o Zolotov, ripresi dagli anni del KGB nella Germania
dell’est (1985-1990), o negli anni nel governo di Pitroburgo, 1991-1996... Vari
pezzi di vita putiniana assurti a incarichi federali, con sorti e fortuna
differenti.
Il quadro che emerge è comunque chiaro:
una logica di fedeltà cementata da legami personali spesso di lunga data. In
questo, come in altri aspetti la
Russia pare un paese con una forte connotazione
patrimonialistica in cui la cosa pubblica viene amministrata come un bene
privato, e in cui si raggiunge un incarico non tanto per cosa che si
conosce, ma per chi si conosce. Un fenomeno certo non solo russo, ma che
per il profilo di chi governa ha avuto un effetto piuttosto particolare sul
paese: dal vertice agli organi di potere regionali ha preso forma una
“militocrazia” (http://www.tandfonline.com/doi/abs/10.2747/1060-586X.19.4.289#.VN-YVuaG_gw
). Per citare un esempio, dei sette distretti federali tutti hanno avuto a capo
almeno un “uomo in divisa”, che fosse militare, KGB, Procura. Il che ha fatto
sì che gli incaricati –a loro volta- aumentassero il numero delle divise nei
ranghi dell’amministrazione distrettuale.
Quando in riferimento al putinismo si
parla di specificità culturali russe, forse si sottovaluta come in qualsiasi
paese un sistema istituzionale di questo tipo, in cui che il controllo civile
sul braccio armato appare rovesciato a favore di quest’ultimo, porterebbe a
politiche analoghe a quelle russe attuali. Se cioè questioni sociali,
politiche, economiche, di relazioni internazionali non sarebbero analizzate
secondo il prisma della sicurezza e della risposta eventualmente armata, con
una militarizzazione del dibattito pubblico e uno squilibrio verso la repressione
e la coercizione.
Un altro rischio del patrimonialismo è
che la coorte, o chi la presiede, si accanisca a investire su un cavallo
perdente, perché lo ritiene “un suo uomo”, nonostante lo scarso consenso
popolare, magari attestato dalle urne, o la dubbia fama. Il caso Janukovich è
fin troppo chiaro, delfino caduto in rovina e riparato in Russia, ma mai più
ricevuto al Cremlino, nemmeno quando lo si riconosceva legittimo presidente in
esilio forzato.
Ma non solo Janukovich: in Abkhazia ci
sono volute varie crisi per alla fine riuscire a installare Khadjimba, che pure
aveva un passato elettorale molto debole, così come quello di Sergey Aksenov,
attuale primo ministro della Crimea. Solo l’alternanza da Putin a Medvedev era
riuscita a smuovere dalla sua poltrona l’altrettanto impopolare e nominato
Zyazikov dall’Ingushezia.
Legata a doppio filo con Putin c’è poi
l’anomalia nel sistema, Ramzan Kadyrov. Il giovanissimo (rispetto alla coorte
dei più o meno sessantenni) e ambiziosissimo presidente della Cecenia che dà
segno che il piccolo territorio non gli basti, che si senta sottodimensionato e
in grado di conquistare spazi maggiori. E lo fa sullo spazio virtuale, nella
sfera religiosa, e assicurandosi visibilità negli scenari internazionali,
incluso il teatro ucraino, e proponendo – recentemente- i suoi uomini a
protezione della difesa dello stato intero. Il profilo regionale cui i media
locali garantiscono la maggiore copertura si dichiara sottomesso non
all’ufficio della presidenza, ma personalmente a Putin.
Se ci fosse bisogno di ribadire i rischi
del personalismo quando si esercita il potere.