Cause e Implicazioni
Si è consumata
nel mese di luglio una problematica crisi di ostaggi a Yerevan, in Armenia.
I fatti in breve: la mattina di domenica 17 luglio
un gruppo armato di una ventina circa di guerriglieri assale una stazione di
polizia ad Erebuni nel sud-est della capitale Yerevan, uccidendo un poliziotto.
Gli agenti in servizio in quel momento nella centrale – 9 persone – vengono
presi in ostaggio. Tre vengono liberati in giornata mentre il gruppo trasforma
ufficialmente l’attacco in un atto politico con una rivendicazione su Facebook.
La banda armata si presenta come gli Audaci di Sassoun, nome preso in prestito
dall’epica armena, e chiarisce che il proprio scopo è ottenere la liberazione
di Jirayin Sefilyan, veterano e fondatore di un partito politico, arrestato in
giugno con sei commilitoni per possesso illegale di armi e accusato di voler
mettere un atto un colpo di stato, e incita la popolazione a sollevarsi contro
la presidenza. Il richiamo viene accolto inizialmente da gruppi sparuti che
incontrano una reazione molto dura da parte delle forze di polizia. Il 18
luglio, dopo che altri due ostaggi sono stati liberati, la tensione cresce. La
negoziazione con la banda armata continua fino a sabato 23, quando anche gli
ultimi quattro ostaggi vengono liberati, mentre la stazione di polizia rimane
occupata dagli Audaci. Solo il 31 luglio la stazione torna in mano governativa.
Per capire
l’episodio si deve partire dal loro profilo. La banda armata pare composta da
veterani della guerra del Nagorno-Karabakh (NK), il guerrigliero di cui chiedono
la liberazione è una figura di riferimento nell’influente circolo di quanti
hanno garantito la conquista del NK e che se ne considerano i tutori. Questo
spiega la tempistica dell’attacco. Il conflitto del NK, regione contesa fra
Armenia ed Azerbaijan, si protrae dal 1994, alternando fasi in cui il cessate
il fuoco viene rispettato a fasi in cui gli incidenti si fanno più frequenti.
Dal 2011 si sta registrando una continua escalation e ad aprile per quattro
giorni le violazioni di cessate il fuoco si sono trasformate in un conflitto
aperto di media intensità. Un triumvirato di mediatori internazionali
dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE)
composta da Francia, Russia e Stati Uniti hanno aumentato il pressing sulle
parti coinvolte nella negoziazione -Armenia e Azerbaijan, escluse le autorità
dell’autoproclamatasi Repubblica del NK- per trovare una soluzione pacifica,
prima che il conflitto esploda nuovamente attivando una catena di alleanze
militari che potrebbero comportare un confronto diretto russo-turco, i primi
alleati dell’Armenia, i secondi dell’Azerbaijan.
Sono varie le
proposte di soluzione avanzate in più di vent’anni di lavorio diplomatico, ma
uno dei requisiti ricorrenti, sancito anche da quattro Risoluzioni del
Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 1993, è che le forze armene lascino le aree
occupate dell’Azerbaijan che non facevano parte della Regione Autonoma del NK ma
che garantiscono la contiguità territoriale fra l’Armenia e la Repubblica
secessionista e lungo il cui perimetro si è consolidata una linea difensiva
fino al 2016 inespugnabile. Ad aprile per la prima volta l’Azerbaijan ha
ripreso possesso di una parte di territorio, sfondando la linea difensiva. Il
comportamento del governo che ha accettato questa perdita territoriale e non ha
lanciato una controffensiva per riconquistarla, il rischio che la presidenza
armena sia costretta ad accettare un compromesso su altre parti di territorio
nonché l’arresto di Sefilyan è ciò che ha attivato gli Audaci.
Il ruolo dei veterani nell’ordine sociale armeno e
il consenso incontrato presso una parte dell’opinione pubblica e verso le loro
specifiche posizioni e verso il loro contrapporsi al governo hanno posto la
presidenza armena davanti a spinose questioni di sicurezza nazionale di natura
tattica e strategica.
Dal punti di
vista tattico l’invito alla sollevazione popolare in parte ascoltato e la
rilevanza dei veterani ha reso troppo rischioso tentare un blitz dagli effetti
potenzialmente sanguinosi, protraendo la durata della crisi con
l’indesiderabile conseguenza di aumentarne la visibilità e quindi contribuendo
al propagarsi di attenzione e consenso verso l’operato dei guerriglieri. Ma
mentre la soluzione pacifica ha mitigato gli effetti del limitato margine di
azione entro cui si poteva muovere il governo, le questioni strategiche che la
crisi ha sollevato rimangono largamente irrisolte, e sono fondamentalmente tre:
come garantire ordine pubblico in presenza di gruppi armati; come gestire il
negoziato sul Karabakh senza che si trasformi in una fonte di destabilizzazione
politica; come garantire la costituzionalità dell’espressione di dissenso
popolare.
Per quanto riguarda il primo punto, il protrarsi del
conflitto ha reso impossibile attivare un efficace programma di disarmo degli
ex combattenti. Gli scontri di aprile hanno visto una mobilitazione di
volontari armati ben al di sopra di quanto la presidenza e il governo potessero
desiderare, ed è evidente che le cellule di volontari hanno sviluppato e
capacità organizzativa e agenda politica altre rispetto a quelle del governo.
Cova nel paese un nucleo ramificato di ultra-nazionalisti armati che si
ritengono i garanti della sicurezza nazionale armena del Karabakh e il cui
rapporto con le istituzioni ufficiali non è né trasparente né necessariamente di
fedeltà ed obbedienza.
Questo porta al secondo punto: questo nucleo ha
strumenti e potenzialità per catalizzare il dissenso dell’opinione pubblica
armena contro ipotesi di compromessi o cessioni territoriali e canalizzarlo
verso politiche di natura sovversiva. Tanto in Armenia quanto in Azerbaijan le
élites nazionali hanno incoraggiato per due decenni aspettative di soluzione
politica del conflitto del Karabakh che non prevedessero compromessi e
concessioni, e le opinioni pubbliche si sono radicalizzate. Di fatto il
processo negoziale a livello di retoriche nazionali è già terminato da tempo,
con le parti in attesa del contesto giusto perché la controparte accetti una
resa totale, cioè per gli armeni che l’Azerbaijan accetti le perdite
territoriali del conflitto, per gli azerbaijani che l’Armenia sia costretta a
riconoscere l’integrità territoriale del paese e si ritiri da quella che non
considera aree secessioniste ma bensì occupate. Il processo negoziale continua
sui tavoli della diplomazia, il che comporta che una qualsiasi soluzione sarebbe
imposta dall’alto e pertanto difficilmente implementabile senza causare
sollevazioni popolari la cui portata non va sottovalutata. Il nazionalismo
rimane uno dei principali fattori di coesione sociale nei paesi post-sovietici,
ed è una forza politica in grado di ricompattare e mobilitare fasce della
popolazione frammentate o apatiche. Il che conduce al terzo e conclusivo punto.
L’intero processo sarebbe gestibile, anche se
rimarrebbe comunque esplosivo, all’interno dei meccanismi costituzionali se
questi fossero pienamente funzionanti. La sede istituzionale di rappresentanza popolare
è il parlamento, in Armenia chiamato l’Assemblea Nazionale. Empiricamente si
può osservare una crescente propensione degli elettori armeni a non affidare le
proprie istanze alla rappresentanza parlamentare ma a ricorrere alla piazza.
Dalla riforma pensionistica, alla così detta BaRevolution dopo le elezioni presidenziali,
a EletricYerevan, alle proteste per il referendum costituzionale, si allunga l’elenco
delle manifestazioni antigovernative di matrice sia sociale che politica che testimonia
deboli rapporti fiduciari fra eletti ed elettori. Fra questi ultimi sono molti
a ritenere che la stabilità del sistema politico si sia involuta in stagnazione
con le istituzioni, in primis
l’Assemblea Nazionale, svuotate del loro ruolo pubblico e quindi non più
legittime. Il che spiega perché un episodio sovversivo perpetrato da una banda
armata abbia attirato un numero limitato di condanne e sia anzi stato se non
giustificato almeno ritenuto un plausibile strumento di lotta politica anche presso
fasce della popolazione non necessariamente estremiste. La repressione
attivatasi in concomitanza con la presa della stazione della polizia ha
ulteriormente alienato dal governo molti yerevaniti, acuendo il problema.
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