L’Armenia non è il cuore geografico
dell’Eurasia, ma da molti punti di vista rappresenta un ganglio geografico e
geopolitico tale da rendere quanto vi sta accadendo in questi giorni un evento sui generis che merita di essere capito
nelle sue implicazioni locali, regionali e internazionali. Si palesa una forza
popolare antigovernativa e in grado di rovesciare un governo ai confini di
Iran, Azerbaijan e Turchia. Paradossale? Forse. Comunque da seguire. E questo è
il primo passo: da Sargsyan a “Nikol”.
La
Rivoluzione degli Armeni
Dal 13 aprile all’8 maggio: in questo
lasso di tempo si è consumata la rivoluzione di velluto. Meno di un mese che ha
letteralmente trasformato un paese: se il termine rivoluzione può essere
ragionevolmente utilizzato per descrivere quanto accaduto è soprattutto per
quanto accaduto nelle piazze. Una disobbedienza civile non violenta, vissuta
con ironia, intelligenza, rigore, che ha trasformato la capitale e altre città
in sit-in permanenti, blocchi del traffico, manifestazioni aperte a tutti. Nei
crocevia della capitale, a bloccare macchine e autobus si sono visti
pianoforti, teatri per bambini, mamme con i passeggini, gruppi di danze
popolari armene, oltre agli studenti universitari, i primi a mobilitarsi
seguiti da medici, dipendenti del settore IT – così importante nel paese –, e
infine soldati e il clero. Un elettorato disposto sì a mobilitarsi, ma anche
politicamente scettico ha risposto alla chiamata di una piccola coalizione di
opposizione, la Yelk.
Il grimaldello della mobilitazione viene
innescato proprio dalla sua eccellente vittima nel 2013: Serzh Sargsyan, allora
presidente, dà il via a una riforma costituzionale che gli permette nel 2018,
terminati i due mandati, di ereditarsi i poteri politici, divenendo Primo
Ministro. Primo Ministro per soli sei giorni, costretto a cedere alla pressione
di una piazza che invece di scemare per le centinaia di arresti si ingrossava
giorno dopo giorno.
Il 23 aprile è la data che segna l’uscita
di scena (ma dietro le quinte?) di Sargsyan, punta di diamante del Partito
Repubblicano che controlla la maggioranza di governo dal 1998. Due decenni di
Repubblicani, uno di Sargsyan, una presa sul potere che sembrava inscalfibile
fino a inizio aprile. La data delle dimissioni va compresa alla luce del fatto
che il 24 si sarebbe tenuta la rievocazione del Genocidio Armeno. Impossibile
gestire Yerevan in quelle condizioni, con l’afflusso di quanti partecipano alla
processione che dalla città si dirige alla stele commemorativa. E ancor di più
con un esercito che perdeva pezzi a favore dei dimostranti.
Dimissioni che sono state seguite da un
fuggi fuggi di pezzi di parlamento: i topi hanno cominciato ad abbandonare la
barca che affonda. Membri di partiti di maggioranza e di opposizione nel parlamento che
hanno cominciato a fare i conti con un elettorato mobilitato. I conti non sono
stati difficili da fare: il carro su cui salire è quello della piazza dello
Yelk. Si è spaccata la coalizione di governo ed è cominciato il “si salvi chi
può” fra i vari titolari di incarichi pubblici, anche a livello di
amministrazioni locali, mentre il Partito repubblicano cercava di serrare i
ranghi.
Nel terremoto i Repubblicani hanno
barcollato ma non hanno mollato, riuscendo a impedire che il capopopolo Nikol
Pashinyan della Yelk divenisse Primo Ministro al primo voto, il 1 maggio. Il
partito controlla 58 seggi su 105, per cui senza il suo endorsement non si esce da una crisi di governo. Ma il giorno
seguente al voto l’Armenia era in stato di occupazione popolare: bloccati
accessi internazionali, l’aeroporto, strade, autostrade, chiuse attività.
Pashinyan si definisce ed è percepito come il “candidato del popolo”, quel
popolo che ha seguito le dieci ore di seduta parlamentare del 1 maggio come
fosse una partita dei mondiali. Un popolo appunto rivoluzionato. Il processo
non più reversibile, e l’8 maggio Pashinyan è stato eletto Primo Ministro con
anche voti repubblicani.
Per capire cosa c’è da aspettarsi
dall’Armenia rivoluzionata conviene proprio iniziare dal suo neo-eletto Primo
Ministro. Il “candidato del popolo” Nikol Pashinyan è stato il perno carismatico
che ha portato alla Rivoluzione di Velluto. Non è un Masaniello dell’ultima ora:
classe ’75 ha alle spalle una carriera da giornalista e una vita politica
maturata fra i banchi dell’opposizione. Si muove con cautela in una realtà
politica che conosce bene. Quanto sarà profondo il cambiamento che propone, che
ha perorato per anni dai banchi dell’opposizione, lo si sta vedendo in questi
giorni. Nei margini di una politica che fa i conti con problemi strutturali,
veti incrociati e perni talmente arrugginiti che pare impossibile si possano
mettere di nuovo in movimento. Ma appunto, di questo capitolo della storia
armena si è appena all’introduzione.